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...Storia

Pace degli elefanti (Pleistocene superiore, 100.000-10.000 anni fa)
Nel corso del secolo XX, durante lavori di scavi edilizi e agricoli, sono venuti alla luce nel territorio di Pace del Mela alcuni depositi contenenti resti scheletrici di Elephas mnaidriensis, il tipico elefante siciliano di taglia ridotta , databili dal tardo Pleistocene medio al Pleistocene superiore. I suddetti resti, secondo la paleontologa Gabriella Mangano che se ne è occupata, documentano che l’ampia pianura costiera tardo pleistocenica (ora sollevata alle quote di 110-80 metri sul livello del mare) che bordava la Sicilia nord-orientale da Taormina fino ad Acquedolci, era estesamente abitata da popolazioni di vertebrati appartenenti al complesso faunistico a Elephas mnaidriensis. (Bibliografia: GABRIELLA MANGANO, Nuovi resti di elefante e revisione di alcuni resti di mammiferi del Pleistocene superiore della Sicilia nord-orientale, in: Giornale di Geologia, serie III, vol. 62, 2000, Supplemento, pp. 103-109)

La battaglia del Nauloco (36 a.C.)
Il 3 settembre del 36 a.C. la flotta di Cesare Ottaviano e quella di Sesto Pompeo si scontrarono in una battaglia risolutiva nelle acque antistanti il Nauloco, presso Mylae. Il resoconto della battaglia ci è stato tramandato dallo storico Appiano di Alessandria, dal quale apprendiamo che le navi di Pompeo, pur essendo superiori per potenza, vennero sopraffatte dagli uomini di Ottaviano che adoperarono una nuova arma, l’arpagone, una specie di trave munita di gancio che, conficcandosi nella fiancata delle navi avversarie, consentiva di trascinarle e squassarle sul lido. Alla fine Pompeo, vistosi perduto, scappò fuori dal Nauloco, da dove seguiva l’andamento della battaglia, e fuggì via mare verso Messina.
Nel corso dei secoli sono state avanzate diverse ipotesi sull’ubicazione del Nauloco, ponendolo ora a Spadafora, ora a Divieto, ora a Giammoro, ora ad Archi. Claudio Saporetti ha passato in rassegna tutte le supposizioni, giudicando alla fine più credibile quella avanzata da padre Giovanni Parisi, che colloca il Nauloco nella zona del Pantano di Giammoro. (Cfr. C. SAPORETTI, Il tempio di Diana nella zona di Milazzo, Stromboli 1993).

Il casale S. Pietro di Trisino (XII-XIV sec.)
La più antica citazione del termine “Trisino” (antico nome del territorio corrispondente grosso modo all’attuale Comune di Pace del Mela) è contenuta in un diploma del giugno 1101 col quale il Gran Conte Ruggero I d’Altavilla conferma le donazioni fatte all’abbazia benedettina della SS. Trinità di Mileto, da lui stesso fondata, fra le quali figura per l’appunto “il casale di San Pietro di Trisino”. Questo piccolo nucleo abitato ricompare in due successivi documenti, uno del 1251 e l’altro del 1321. Successivamente esso scompare, perché nel 1322 i suoi abitanti, così come quelli di altri casali vicini, decidono di spostarsi nella nuova “Terra” di S. Lucia, difesa dal castello fatto costruire da Federico II d’Aragona sulla vetta del colle Mangarrone in modo da consentire alla popolazione di sfuggire alle scorribande delle soldatesche angioine e aragonesi che si scontravano nella piana di Milazzo. Il nome “San Pietro”, legato all’esistenza di un’antica chiesa oggi scomparsa, rimarrà tuttavia ad indicare per diversi secoli una contrada che si estendeva nell’area oggi compresa fra l’ufficio postale e le scuole elementari di Pace Centro.

Il funzionario arabo Ruggero Muto (sec. XII-XIII)
Attraverso un atto di donazione del 1218, siamo a conoscenza che il casale “Dricino” (cioè S. Pietro di Trisino) era appartenuto negli anni antecedenti a un certo Ruggero Muto. Dalla ulteriore documentazione in nostro possesso, sappiamo che costui era un arabo di alto rango, funzionario alla corte di Guglielmo II. Il viaggiatore arabo Ibn Giubayr, che ebbe modo di conoscerlo a Trapani nel 1185, ci fa sapere che il suo nome era in realtà Ibn Hammud, ma che veniva chiamato anche Abu’l Kasim. Questi due nomi compaiono in diversi diplomi dell’ultimo periodo normanno e del primo periodo svevo. Nel 1168 incontriamo un “gaìto Bulcassim” che ricopre la carica di “arconte del Secreto”. Nel 1189 Ruggero Hamuto è “regio giustiziere”. Questo Hammudita fu perseguitato più tardi per una vera o supposta congiura e i suoi immensi possedimenti vennero confiscati dalla Regia Corte e in seguito donati a vari beneficiari. Un palazzo in Trapani, appartenuto al gaìto Bulcasimo, venne donato nell’anno 1200 al Comune di Genova. Vari possedimenti in Castrogiovanni e altrove vennero donati all’arcivescovo di Palermo. Il feudo Dricino, nella piana di Milazzo, venne donato all’orafo di corte Perrono Malamorte. Si ricollega a Ruggero Muto il nome del torrente Muto, detto anche fiume di Gualtieri, che nel passato costituiva il limite orientale del feudo Trisino e oggi segna il confine di Pace del Mela con i Comuni di San Pier Niceto e di Condrò.

L’orafo messinese Perrono Malamorte (1218-1250)
Il più antico documento conosciuto sul feudo Drisino è un diploma del 12 settembre 1218 col quale Federico II di Svevia fa dono del “casale Dricini” a Perrono Malamorte, orafo messinese, per ringraziarlo e compensarlo dei suoi servigi. Su questo personaggio non sappiamo null’altro. Tuttavia il generoso atto di donazione nei suoi confronti ha fatto pensare a lui come all’orefice prediletto da Federico II (Accascina). La sua cittadinanza messinese ha indotto qualche studioso ad attribuirgli una croce astile in argento conservata nel Tesoro del Duomo di Messina che potrebbe risalire al periodo svevo. La circostanza, infine, che il diploma di donazione è stato rilasciato a Ulma, in terra tedesca, lascia supporre che Perrono Malamorte nel 1218 si trovasse al seguito di Federico, che nel marzo del 1212 si era recato in Germania per ricevere la corona imperiale.
(Bibliografia: M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, Palermo 1976, pp. 93-101)


Il possesso dei Falcone, dei Riso e dei Bonifacio (1250-1388)
Fra la morte di Federico II (1250) e l’avvento di Carlo I d’Angiò (1266) il casale Drisino risulta occupato abusivamente da un certo Roberto di Mileto, ma la Regia Corte interviene per incamerarlo. Nel 1277 lo vediamo ceduto in enfiteusi perpetua dal Monastero benedettino della SS. Trinità di Mileto alla vedova e ai figli del milite messinese Buongiovanni Falcone. Da altri documenti sappiamo che fra i vari proprietari figurano i nomi di Matteo Riso e di Ligio Scala. Nel periodo aragonese il feudo compare in possesso di alcuni componenti della nobile famiglia messinese dei Bonifacio. Nel 1355 Nicoloso Bonifacio,con proprio testamento, nominò suoi eredi universali i due figli Fazio e Giacomino e lasciò un legato perpetuo di tre onze d’oro a favore dell’ospedale messinese di Angelo Grande o di San Leonardo. Negli anni seguenti questo legato venne trasformato in possesso enfiteutico di un terzo del feudo Drisino.


I Benedettini e l’Ospedale di S. Leonardo (1388-1866)
Nel 1388, Fazio Bonifacio dettò le sue disposizioni testamentarie lasciando al Monastero benedettino di San Placido di Calonerò di Messina il possesso enfiteutico di due terzi del feudo Drisino (il rimanente terzo, come abbiamo visto, apparteneva all’Ospedale di Angelo Grande). I Benedettini rimarranno nel possesso del feudo fino al 1866. Durante tutto questo lungo periodo essi dovranno sostenere diverse battaglie legali col compossessore Ospedale di Santa Maria della Pietà (che nel 1542 era subentrato, per incorporazione, all’Ospedale di Angelo Grande), coi confinanti baroni di Monforte, di Condrò e di Camastrà e con l’Università (oggi diremmo Comune) di Santa Lucia. Nel feudo si praticava la coltivazione di frumento e orzo e l’allevamento del bestiame. A cominciare dal XVI secolo è attestata la presenza di mortelleti, utilizzati per la conciatura, e di gelseti, da cui si traevano le “fronde” per l’allevamento del baco da seta.

Il feudo di Camastrà
Incuneato tra i feudi Drìsino ad oriente e Cattafi a occidente, il piccolo feudo di Camastrà figura per la prima volta nel 1270 nel computo territoriale dell’amministrazione angioina. Nel 1321 apparteneva a Leonardo Mostaccio. Negli anni seguenti lo troviamo in possesso di Tommaso Crisafi, di Angelo Balsamo (1471), di Nicolosio Crisafi (1516), di Mariano Basilicò (1530), di Pietro Pollicino (1596). Verso il 1630 ne entra in possesso la famiglia Gordone, che ne terrà il possesso feudale fino alla fine della feudalità (1812) e rimarrà proprietaria dei relativi fondi agricoli fino ai giorni nostri.

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